Scuole chiuse, didattica a distanza. E se facessimo di necessità virtù?

Questo il titolo di un intervento di Carlo Trionfi, direttore scientifico del Centro Studi Famiglia, sul tema scuola.

L’intervento tocca un punto critico della scuola di oggi: la noia degli studenti. L’autore dice che ha provato a seguire una lezione di suo figlio ma, pur ammettendo la preparazione dell’insegnante, ha vissuto quello che si può chiamare un forte senso di noia e straniamento. Aggiunge che suo figlio si è dimostrato più diligente di lui. L’autore individua due possibili strategie prese da esempi diffusi soprattutto in USA e nord Europa per combattere la passività indotta dalla nostra scuola.

La prima è quella di “suddividere ogni ora di lezione in moduli di circa dieci minuti, nei quali viene espresso e formalizzato un unico concetto. Ogni dieci minuti si richiede a tutti gli studenti di rispondere online ad una domanda su quanto appena ascoltato, in modo da renderli tutti partecipi e attivi, non solo i più bravi e motivati”.

La seconda strategia è quella “delle cosiddette flipped classroom o insegnamento capovolto, che bene si adatta alla DAD. Il modello delle “classi capovolte” propone che gli studenti accedano alle nozioni anche stando da soli, attraverso una serie di stimoli (lezioni videoregistrate dell’insegnante o di altri docenti, video, filmati, articoli) e che la lezione con gli altri compagni e con l’insegnante sia dedicata alla rielaborazione condivisa, alla sperimentazione e alla discussione…”.

L’autore si chiede: “Cosa vieterebbe di applicare un simile modello nella nostra scuola? (soprattutto nella scuola superiore ndr)…Perché non favorire l’elaborazione attiva dei contenuti, organizzando dei piccoli gruppi di studio che potrebbero incontrarsi per organizzare stimoli di discussione con l’intera classe, approfittando della DAD, se pure continuando ad auspicare un ritorno in aula che non è in nessun modo sostituibile e che rimane per noi l’unica modalità adeguata di apprendimento e socializzazione per i giovani?

Sebbene in modo surrogato, un simile modello consentirebbe di insegnare ai nostri figli a gestire una discussione o a presentare pubblicamente le proprie idee via video (cosa che per il futuro, per come stanno evolvendo i modelli di comunicazione e di riunione a distanza, dovranno imparare a fare in modo efficace una volta entrati nel mondo del lavoro).

E l’autore conclude con un’idea tanto franca quanto ardita: “Perché non formare immediatamente e rapidamente i nostri bravissimi docenti alla flip education affinché possano sperimentare in questi mesi di lockdown un nuovo metodo didattico più attivo e rispettoso delle competenze di studenti e docenti? Dobbiamo capire ciò che è evidente: il mondo è cambiato e alcuni elementi di questo cambiamento resteranno nel futuro a medio termine”.

E ora uno sguardo dall’interno

Dal mio osservatorio di insegnante di scuola media confermo il senso di straniamento dei ragazzi rispetto a quanto viene loro proposto a scuola. Concordo col dott. Trionfi che la passività è un male molto italiano della scuola e sul fatto che occorra una formazione degli insegnanti seria quando si introducono nuove metodologie. Il rischio delle flipped classroom infatti è quello di aumentare il divario tra chi è già più autonomo e chi lo è meno.

La mediazione di un bravo insegnante può rendere tutto attuale e stimolante ma col fraseggio del Manzoni, diciamolo, è dura, per i sempre più numerosi ragazzi stranieri, ma anche per i loro italianissimi coetanei che hanno tutt’altro per la testa.

Vedo invece esempi bellissimi di lavoro con gli studenti per far sviluppare loro competenze espressive, di creatività e conoscenza di sé: sono stato recentemente a vedere una rielaborazione cinematografica di Romeo e Giulietta prodotta da un gruppo di ragazzi della periferia di Milano guidati da un regista professionista. Al termine dello spettacolo ho pensato: “ Tutti i ragazzi dovrebbero avere un’opportunità cosí”.

Quando la didattica è buona permette a tutti di partecipare, è inclusiva di per sé, perché permette di far emergere competenze e stili cognitivi diversi. Questi ragazzi, che non venivano certo da un contesto sociale ricco di strumenti culturali, hanno imparato a confrontarsi con approcci filosofici ai problemi amorosi, con la poesia di Shakespeare, la tecnica cinematografica, il contesto sociale e politico della Verona del 1300. Si vedeva la luce negli occhi di questi adolescenti.

Si può dire che non ci siano le risorse per offrire a tutti gli studenti la possibilità di lavorare decine di ore con professionisti esterni alla scuola. Eppure non posso fare a meno di pensare che i ragazzi dovrebbero almeno assaggiare, prima di terminare il loro percorso di studi, un modo di lavorare che solo un professionista esterno alla scuola può far conoscere. Gli insegnanti che hanno queste competenze ci sono ma sono una strettissima minoranza e le ore di compresenza che fino a qualche anno fa permettevano questo tipo di lavori ai più volenterosi sono state tolte. Inoltre negli ultimi anni la spinta ideale, che sorreggeva gli sforzi di molti insegnanti, da quello che vedo intorno a me, è andata spegnendosi.

Io vorrei che fosse riconosciuto diritto di tutti i ragazzi la possibilità di accedere a un’esperienza ben strutturata di cultura e sviluppo della propria espressività. Un diritto che non sia lasciato solo alla buona volontà dei singoli insegnanti ma preveda di inserire nel curricolo le attività espressive, dalla scuola primaria fino alla secondaria. Nel modello inglese già si fa da tempo. A quali professionisti esterni sto pensando? Ho incrociato nella mia vita molti giovani registi, attori, fotografi, poeti e scrittori, brillanti e vicini agli adolescenti per età. Molti fra questi avrebbero le capacità e la voglia di insegnare ai ragazzi. Una collaborazione part-time con le scuole garantirebbe loro un’entrata economica e un confronto stimolante con la realtà. Quelli degli studenti e degli artisti sono due bisogni che si incontrano.

Una sinergia tra le forze più vitali.

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