A ruota libera, sulla scuola per adulti stranieri

Ogni mese di giugno a scuola c’è il momento emozionante dei saluti a chi va in pensione dopo quarant’anni di lavoro. Con alcune persone lo è in modo particolare perché hanno dato alla scuola il loro meglio. Con la maestra Piera è stato proprio così, nessuno riusciva a trattenere le lacrime.

Le ho chiesto un’intervista per raccogliere la sua testimonianza.

Faccio una premessa per far conoscere una realtà che è sconosciuta ai più. L’acronimo Cpia sta per Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, cioè chi ha compiuto i sedici anni. Sono stati istituiti nel 2012 prendendo il posto dei preesistenti Ctp, Centri territoriali permanenti, i quali, a loro volta nel 1997 avevano riunito a sé i corsi per il recupero della licenza elementare (poi diventati corsi di italiano L2) e le vecchie 150 ore per il recupero della scuola media.

Piera, tu sei una veterana; parliamo degli inizi: come sei entrata nella scuola?

Quando sono uscita dall’università di psicologia ero convinta che mi piacessero i bambini e mi sono infilata nella scuola primaria. Per me l’insegnamento è sempre stato vitale, però sentivo che coi bambini non ero nel mio. Quando ho fatto domanda per la scelta della sede ho visto che c’era la possibilità di lavorare nei corsi per adulti e mi sono detta: “Questo è il mio posto”. I primi due anni mi hanno mandata al campo nomadi in via Bonfadini (vedi foto sopra).

Andavo al campo a cercare di fare lezione. Non c’era nemmeno un posto dove radunare un gruppo. Passavo di baracca in baracca, mezz’ora con questo, mezz’ora con quella, e nel frattempo c’era la televisione accesa, mi offrivano da mangiare e da fumare.

Il primo anno ero un po’ spaventata quando arrivava la polizia, poi ho scoperto che erano tutti in combutta tra di loro. Arrivavano i tossici coi motorini rubati, e i rom gli facevano anche la predica: “Tu fai piangere la tua mamma”, e intanto gli compravano a quattro lire i motorini e le autoradio. Era il 1988.

Alla fine del secondo anno sono andata dalla direttrice e ho detto che non me la sentivo di continuare in questo modo. Ho proposto di far venire i rom a scuola anziché andare io al campo; soprattutto per le donne sarebbe stata una buona opportunità di uscire.

Sono poi finita nella scuola di via Zama, dove c’erano i primi corsi per stranieri. Non era ancora il Ctp. Sto parlando del 1990. Di fianco c’era uno dei primi centri d’accoglienza. Ero con la mia collega Paola, e lì, come due pioniere, eravamo completamente abbandonate a noi stesse. La direttrice sapeva giusto che esistevamo.

Avevamo detto a quelli del centro che iniziava la scuola e sono arrivati tantissimi studenti. Noi non sapevamo nemmeno che dovessero avere i documenti. Loro venivano e gli chiedevo: “Ce l’hai il permesso di soggiorno?” “No”. E io gli dicevo: “Ma dopo arriva? Quando arriva ce lo dai?” “Sìììì”.

Anche adesso possono venire con la sola domanda di permesso di soggiorno ma allora non avevano nemmeno quella. Parliamo di trent’anni fa, quando iniziava il fenomeno dell’immigrazione e non c’erano leggi che la regolavano.

Mi ricordo la prima lezione. Gli studenti sono arrivati tutti belli neri, in canotta, con i muscoli ben in vista e le ciabatte. Sembravano un esercito di testosterone. Eravamo da sole in questa scuola enorme. Un misto di eccitazione e di ansia, anche perché erano le prime lezioni di lingua che facevo. Questi non avevano bisogno di imparare a leggere e a scrivere. Avevano bisogno urgente di comunicare in italiano. Non avevamo libri, nemmeno una fotocopiatrice. Non ci riscaldavano la scuola perché c’eravamo solo noi e dicevano: tanto loro sono abituati al freddo! Allora la portinaia ci ha ricavato due aule nella ex presidenza, che avevano il riscaldamento. Eravamo senza lavagna, coi fogli di carta A4 e il pennarello. C’era un tavolone al centro, noi scrivevamo e gli giravamo il foglio.

Il centro di accoglienza poi è stato chiuso e a settembre andavamo a fare volantinaggio per cercare studenti. Piano piano abbiamo iniziato a sentire altre scuole dove c’erano insegnanti isolate come noi e abbiamo iniziato a creare un po’ di incontri e a scambiare informazioni.

Come ti sei formata?

All’inizio imitavamo come era stato insegnato a noi l’inglese. Si partiva dalla grammatica col verbo essere e avere. Poi piano piano abbiamo capito che la lingua è un’altra cosa. Se ci mandavano proposte di corsi di aggiornamento erano per la scuola del mattino, che a noi non servivano a niente.

C’erano i libri di didattica scritti da chi aveva già un po’ di esperienza, però ho imparato a insegnare la lingua prima di tutto vedendo i risultati. Se un’idea ne dava di buoni si teneva, se no si scartava. Per esempio, ripetere il verbo essere alla prima lezione è da matti.

Mi ricordo che un giorno Paola ha detto: “Lo sai che al mio corso di inglese abbiamo imparato una canzone, e mi sono divertita tantissimo. Possiamo farlo anche noi?” La prima che abbiamo insegnato è stata Ciao amore di Luigi Tenco, che tra l’altro parla di una persona che se ne va per andare a cercare una vita migliore. E infatti mi ricordo uno studente marocchino che ha detto: “Questa canzone parla di noi!”.

Poi si sono modernizzati anche i libri di testo e sceglievamo quelli che ci sembravano migliori.

Dal 2017 c’è la classe di concorso specifica per l’insegnamento della L2. Una maestra del nostro gruppo dei corsi di italiano ha passato il concorso come A023 ma è un’eccezione. Sono state quasi tutte mandate alla scuola media, anche se noi ne avremmo molto bisogno.

Mi ricordo che un anno mio padre stava morendo e io tornavo a casa la sera e piangevo perché avevo fatto una lezione brutta. Perché non riesco a concepire di non essere contenta del mio lavoro. Non che siano tutte speciali le mie lezioni, però la maggior parte delle volte devo essere contenta di quello che faccio. E se sono contenta io vuol dire che sono contenti loro.

Occorre guardare l’interlocutore. È questo che, secondo me, manca nella formazione degli insegnanti. A volte io vedo le facce e chiedo: “Siete stanchi?” Loro dicono sì, perché la lezione è stata densa, allora capisco che è il momento di fermarmi. Bisogna guardare la faccia dello studente, com’è, come reagisce, se comincia a guardare l’orologio.

Non si può parlare agli studenti che frequentano la nostra scuola con lo stesso linguaggio con cui si parla a un ragazzino italiano. Se gli studenti guardano con l’occhio spiritato, non entra niente. Bisogna sentirla la partecipazione.

Dalla mia esperienza ho notato che la formazione delle classi è un momento fondamentale e molto delicato.

Oggi siamo in sette maestre e possiamo diversificare l’offerta di livelli e orari. Comunque anche adesso la maggior parte delle volte si fa un compromesso.

Se nell’orario che c’è il corso del livello adatto, lo studente è al lavoro, bisogna iscriverlo ad un altro livello e spiegargli che si deve dare da fare in modo da riuscire a seguire il più possibile.

Ma anche se si parte con venti persone di livello omogeneo, al Cpia dopo un mese sono già tutti livelli differenti. La velocità di apprendimento dipende dalla lingua d’origine, dalla loro scolarizzazione, se fanno le casalinghe e non esercitano mai la lingua, se sono invece persone giovani che vedono altre presone e si danno da fare.

Per questo è nata l’idea dei corsi a moduli: comprensione, produzione orale, lettura, scrittura. Le persone di lingua spagnola che sono appena arrivate già comunicano. È inutile far stare uno spagnolo a tutte le lezioni di ascolto insieme a cinesi e arabi. Si rompono e se ne vanno. Facciamo dei test di ingresso e diamo dei crediti a chi ha già delle competenze, in modo che possono frequentare solo i moduli di cui hanno bisogno.

La suddivisione in moduli ha anche il vantaggio che se un giorno uno non può venire, può recuperare in un altro orario, anche con un altro insegnante, così perdono molte meno lezioni e hanno anche la possibilità di vedere stili diversi di insegnamento. I moduli hanno tantissimi vantaggi per tutti. Piano piano siamo riuscite a far passare l’idea dei moduli nel nostro plesso e alcuni studenti della media oggi vengono a fare con noi delle ore di rinforzo dove hanno più bisogno.

Non riesco a capire perché non siamo riuscite a far passare questa idea alle colleghe delle altre sedi.

Cerchiamo di fare classi omogenee ma un po’ di eterogeneità degli studenti all’interno di uno stesso corso è utile. Non è buono avere tante persone della stessa lingua insieme perché poi continuano a parlarsi tra di loro. Succede per esempio con i gruppi di donne arabe che vengono al mattino mentre i figli sono a scuola. E’ anche vero che per loro è fondamentale uscire di casa e socializzare.

Col covid le classi erano composte al massimo da 18 studenti. Adesso 22. Con 18 si lavorava alla grande, in classe ce n’erano 15-14. C’è sempre qualcuno assente per fare i documenti o per i colloqui di lavoro, o impegni con i figli.

L’anno scorso abbiamo messo in pista la novità delle mezz’ore di conversazioni individuali. Erano molto richieste, soprattutto dalle donne, perché per mezz’ora erano obbligate a parlare, nessuno che suggeriva, che diceva “lei vuole dire questo”.

Quest’anno non siamo riuscite a ricavare queste mezz’ore perché abbiamo avuto l’orario strapieno. C’è tanto bisogno sui livelli base a cui bisogna dare la precedenza. Non che ci sia poca richiesta per i livelli alti ma c’è troppa richiesta sui livelli bassi, dopo non avanzano né insegnanti né ore a disposizione. Dobbiamo mandare via delle persone.

Tu sei stata coordinatrice dei corsi di italiano. Ti ho sempre ammirata per come sai trattare con i colleghi. Nella mia esperienza a scuola non è mai facile e al Cpia in particolare. Mi puoi dare qualche dritta?

A me è sempre piaciuto stare in mezzo agli altri, anche se a volte è veramente difficile. Forse è cominciato con mio marito. Mi sono accorta che io volevo tutte e due le cose nel rapporto di coppia, la libertà e l’amore. Non potevo stare senza una delle due.

Mi sono accorta che anche sul lavoro è la stessa cosa. Non potevo rinunciare alla mia libertà e nello stesso tempo non volevo rinunciare alla relazione. Perché se tu devi lavorare in un posto devi trovarlo sereno, se no lavori male. Quando chiedi un cambiamento all’altro metti sul piatto il tuo cambiamento. Anzi, molte volte se cambi tu, non hai nemmeno bisogno di chiedere il cambiamento all’altro. Diventa automatico. È un’osmosi che si crea nella relazione.

Per qualche anno ho fatto la psicologa e mi sono resa conto che se la persona davanti a me è seduta stravaccata non è pronta ad accogliere niente. Se tu gli fai una domanda e si siede dritto e proteso in avanti vuol dire che hai fatto la domanda giusta. Non gli hai detto: “mettiti dritto”. Se un collega è interessato al confronto si vede subito. Se non lo vuole non ci provo neanche.

Molti prendono tutto come un attacco personale mentre nella realtà la maggior parte delle volte le persone non vogliono attaccare te, attaccano un’immagine che loro hanno in mente, e se tu rispondi con lo stesso tono di attacco personale, alla fine non risolvi niente. Noi dobbiamo sistemare il problema, non è che io devo sistemare te o tu devi sistemare me. Non puoi concentrarti solo sulla tua di figura, devi concentrarti sul gruppo. Se si riesce a creare armonia, poi, piano piano le cose si sciolgono più facilmente.

Spesso un motivo di conflitto tra colleghi è la scelta se far ripetere l’anno o meno. Ci puoi fare qualche esempio per far capire la complessità della scelta a chi non è del mondo della scuola?

La legge non può essere chiara per tutte le situazioni, sono talmente tante!

Io ho detto molte volte che noi insegnanti ci dobbiamo assumere la responsabilità delle scelte. La legge fornisce delle linee guida. Faccio un esempio. Abbiamo avuto a che fare adesso con delle donne egiziane che con la scrittura sono un disastro. Abbiamo detto loro che dovevano rifare il modulo di scrittura, e si sono arrabbiate. Una in particolare non lo accettava. Allora le ho fatto vedere il suo compito e ad ogni riga c’erano almeno tre, quattro errori. Poi le ho spiegato:

“Noi con l’A2 facciamo così: siccome sappiamo che è necessario per avere i documenti, quando la persona ha bisogno dei documenti una spintarella gliela diamo, ma siccome voi non ne avete bisogno, qual è il problema? Abbiamo pensato di farti fare di nuovo il modulo di scrittura. Non è una buona cosa questa?” Oltre ad assumersi la responsabilità occorre spiegare bene il perché di certe scelte.

Faccio un altro esempio: per valutare un livello A2 ciò che conta è guardare se la persona quando si esprime riesce a passare il messaggio, perché l’A2 è il livello della sopravvivenza.

I casi sono così tanti! Prendiamo ad esempio i ragazzi delle comunità per minori non accompagnati: ci sono quelli che al volo imparano a parlare ma non sanno scrivere, però tra due mesi li mandano fuori dalla comunità e devono trovare lavoro. Non avranno più tempo per tornare sui banchi di scuola per prendere il titolo. Cosa fai? Non puoi bocciarli perché i complementi non sono messi al posto giusto.

Quando c’è diversità di vedute tra i colleghi bisogna mediare. Il mio insegnante di Tai Chi continua a dire: “Mai forza contro forza, perché vince quello più grosso, non quello che ha ragione”. Se uno va di punta tu devi essere morbido.

Io non voglio né accettare né imporre. È un lavoro veramente difficile. Ricordo che i miei genitori dicevano pochi no, ma quelli che dicevano erano spiegati così bene e così tanto che alla fine per sfinimento dicevo: “va bene, ho capito”.

La capacità di comunicare il proprio pensiero si deve affinare, e questo non viene insegnato nei corsi.

Hai qualche ricordo di studente particolare?

Sono tanti ma appena ne hai parlato mi è venuto in mente uno dei primissimi: Xi, che ci ha portato in Cina ospitandoci a casa sua. Una volta potevamo fare i viaggi!

Quello è stato uno studente che è diventato, non dico amico, perché la mentalità comunque è molto differente, però uno dei primi allacci importanti.

Oltre a Xi mi viene in mente una donna egiziana. Ha frequentato con me tutti i corsi possibili e immaginabili: A1, A2, fino al B2, e poi è tornata indietro a fare ancora il B1. Il suo livello è sempre stato uguale. Non è mai migliorata né peggiorata però ancora adesso mi manda le mail con scritto Ciao Piera bella a Ferragosto e a Natale. Mi ha colpito questa donna; ha avuto una forte depressione, perché queste donne sono molto esuberanti, chiacchierone, anche abbastanza allegre, però si auto tarpano l’esistenza facendo le mogli e i figli. Quasi sempre il marito è imposto e quindi la loro vita sottostà sempre a delle imposizioni. Ci sono alcune che accettano; dicono: questa è la vita. Altre invece ci soffrono ma non sanno che volendo si può cambiare.

Ricordo un’altra donna egiziana che l’anno scorso veniva sempre a fare la mezz’ora di conversazione. Il discorso finiva su di lei. Ha avuto il coraggio di lasciare il marito. Studia perché deve trovare un lavoro, adesso è dal fratello, lei e il suo bambino più piccolo. Sono casi rari, è per quello che il mondo ha bisogno di tanto tempo per cambiare.

Il Cpia è anche questo. Trovare un modo per entrare in relazione con adulti stranieri che arrivano in un momento difficile e delicato.

Bisogna fare molta attenzione. Queste persone hanno bisogno di tutto. Bisogna sapere se si è in grado o no di dare. All’inizio davo il mio numero di telefono a tutti quelli che me lo chiedevano. E quindi vedevano la disponibilità e quando avevano bisogno chiamavano. Ho dovuto imparare a dire di no, a capire che io non posso risolvere i problemi dell’umanità.

Anche il loro parlare deve essere limitato. A volte arriva l’occhio rosso, allora ti fermi, torni indietro e cambi discorso, perché non sono delle sedute di psicologia, sono dei racconti.

Non puoi risolvere i loro problemi ma puoi dire che c’è una possibilità per tutti.

Grazie Piera.

L’articolo è apparso sulla rivista di settore Pedagogia.it.

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