Beau ha paura

Il primo quadro del film ci presenta un uomo single di mezza età, Beau, in uno squallido appartamento sopra una strada dove alberga la peggior specie di degradazione umana urbana. Anche se all’inizio si rimane un po’ frastornati, il film ci presenta subito qualcosa che ha dell’incubo: troppi motivi di paura tutti insieme. Ciò che viene rappresentato è un ibrido tra incubo, fantasticheria e realtà, in cui l’incapacità di distinguere tra reale e immaginario è il motivo stesso della sofferenza di Beau e deve quindi rimanere tale anche sullo schermo per ottenere la partecipazione dello spettatore.  Già dalla prima scena del parto, presentato con le sensazioni del neonato, il regista dichiara di voler parlare delle profondità dell’inconscio, che affondano nelle esperienze più forti e remote, alle quali la memoria non può accedere, che condizionano tratti fondamentali della nostra relazione col mondo. Le paure del protagonista, che vive male nonostante gli ansiolitici, ingigantiscono motivi di apprensione presenti realmente nella vita di tutti i giorni: brutte facce incontrate per strada, vicini invadenti, perdite di acqua, carta di credito bloccata al momento sbagliato e via di questo passo. Questi fastidi quotidiani si trasformano in minacce vitali: pazzi armati di coltelli, rubinetti a secco nel momento in cui un sorso d’acqua può essere il solo salvavita, furto di chiavi proprio il giorno che bisogna prendere l’aereo per un viaggio importante. Il regista e sceneggiatore Ari Aster vuole farci immedesimare nella mente sofferente del protagonista; tuttavia, rappresentare questa sofferenza presuppone il vantaggio del distacco. Allora l’ironia per questi fantasmi si impone. La sfida è riuscire a tenere insieme questi due aspetti di tragedia della malattia mentale e di ironia. Lo sguardo dell’attore Joachin Phoenix, impaurito e corrucciato ma anche un po’ ebete, centra l’obiettivo perché lascia lo spazio a questo fondo di ironia che percorre la pellicola.

Beau si sente in dovere di andare a trovare la madre, una donna che impariamo a conoscere durante il film. Nella seduta dal terapeuta, alla domanda se lui si senta in colpa per non essere andato spesso a trovare la madre, Beau, che di solito risponde titubante con un filo di voce, questa volta non riesce a rispondere. Il terapeuta segna sul suo tacquino la parola Guilty. Beau si sente in colpa ma non sa di cosa. Non riesce a esprimerlo e, anzi, davanti ai suoi accusatori-persecutori interni, chiede spesso che cosa lui abbia fatto di male. Trova sempre qualcuno che lo perseguita: nella famiglia che lo cura dopo un incidente si sente minacciato dalla figlia che gli ha prestato la stanza e da un traumatizzato di guerra che vive a casa loro. Fuggito da lì entra in un bosco dove incontra una donna e una comunità di fuoriusciti dalla società, nel momento che danno una rappresentazione teatrale. Vede scorrere davanti a sé la vita di un uomo che, dopo aver costruito finalmente la sua famiglia, la perde. Tra il pubblico incontra un signore che conosce la sua famiglia e pensa sia suo padre. Appena dopo il veterano di guerra lo raggiunge con bombe e mitraglia. Nella fuga Beau raggiunge una strada che lo porterà alla casa materna, mausoleo di una donna che sembra inattaccabile, bella, sicura, dai modi raffinati e a capo di un impero economico.

Beau nel corso del tempo e del film vive delle esperienze, oniriche o reali non importa, che gli fanno capire che la storia che gli aveva raccontato la madre per fargli venire paura delle donne era falsa (Beau è ancora vergine), così come era falso che il padre che lui non ha mai conosciuto fosse morto.

Verso la fine del film il gioco con le resistenze al cambiamento si fa più duro. Si immagina il terapeuta in combutta con la madre. Si immagina in un’arena di spettatori che assistono freddi al suo processo.

Scopriamo così che i gravi peccati commessi da Beau sono solo sciocchezze che tutti i ragazzini commettono.

Il finale liberatorio però non arriva. L’unico piacere concesso è ancora la velata ironia dell’affondamento troppo scoppiettante della barchetta di Beau.

Questo in estrema sintesi quello che sono riuscito a capire nel susseguirsi di tre ore di vicende e immagini vulcaniche.

Il pubblico in sala rimane inchiodato alla poltrona davanti ad ambientazioni molto credibili e scene che rispecchiano la violenza della mente su sé stessa. Tuttavia, l’unica emozione presente è la paura di Beau, i personaggi sono solo funzionali ad esprimere questo stato mentale e la lotta del protagonista per la sopravvivenza. Tre ore sono troppe. Il film può essere interessante per i suoi equilibri visivi nel mix tra realtà, sogno e fantasticheria.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.