Quanto è robusto un uomo

Alla stazione Centrale di Milano salgo sull’Intercity diretto a Nizza e prendo posto. Le colonne di fianco al finestrino indietreggiano senza un rumore mentre i pensieri si staccano dalle faccende della città in fuga dietro l’ultimo vagone.

Dall’altro lato del corridoio una madre con suo figlio: lui porta l’apparecchio e capelli a spazzola da rockstar sopra occhi di bambino; si appoggia al fianco di lei e chiude gli occhi. Un’altra madre dorme col capo avvolto nel velo; le due figlie adolescenti alternano la musica negli auricolari alla lettura di un libro.

Mentre le ruote ferrate battono il tempo regolare sugli scambi, la voce dell’interfono dà il benvenuto.

Due file più avanti, rivolto verso di me, un ragazzo magrebino. Ha i tratti fini e la pelle liscia, lo sguardo vivo sotto folte ciglia. Non avrà ancora diciott’anni. Porta jeans strappati ma puliti e una maglietta dei Metallica; sta dritto nel sedile e ascolta musica nelle cuffie, lancia rapide occhiate a destra e sinistra da sotto le folte ciglia.

La pianura scorre uniforme fuori dai finestrini. Alla stazione di Tortona mi alzo a prendere il pranzo nella cappelliera e alla vista del mio panino, chi prima chi dopo, tirano tutti fuori qualcosa da mangiare. Solo il ragazzo attento a tutto non prende niente dal suo zaino. Quando scarto la stagnola del mio primo panino avverto nella sua direzione un tendersi dell’orecchio. Il ragazzo non fa il minimo cenno, eppure, forse da come i jeans cascano sopra le sue ginocchia ossute, forse per quel residuo di istinto animale che ancora ho, sento la sua fame e mi si stringe lo stomaco.

Mi viene in mente di offrirgli un panino. Vedo già la scena: mi alzo facendo finta di sgranchirmi le gambe, lo saluto con gli occhi e vedo se mi risponde con un cenno, aggiungo una considerazione sul tempo per rompere il ghiaccio, e poi gli dico: “Ho molti panini, se vuoi te ne do volentieri uno”. Ma poi mi convinco che la mia è autosuggestione, forse mi sono inventato il suo bisogno e potrei offendere la sua dignità. Dopo il covid siamo tutti più restii nell’offrire cibo.

Autosuggestione, covid. Tutte balle! Sento che il mio fiuto animale ha ragione, che lui ha fame, ma un messaggio WhatsApp fa sfuggire il momento in cui stavo per alzarmi, e poi non oso più. Lui ascolta la musica, ma a vedere lo sguardo concentrato, si direbbe una copertura per il suono ingombrante dei suoi pensieri. Da quanto tempo viaggia da solo? Ha solo pochi anni in più del bambino di fianco a me, a cui la madre ora porge un fazzoletto per soffiarsi il naso.

Fuori dal finestrino un’oca selvatica spigola con grazia in un campo. La sera raggiungerà lo stormo nel ricovero notturno.

Di fianco al nostro binario un treno merci porta container diretti a Genova e poi chissà, Amburgo o Shangai. Scatole di metallo massicce, dure, fredde, impermeabili, che fanno avanti e indietro per anni sotto il sole e la pioggia. Mi chiedo: quanto è robusto un uomo? Se a noi sorprende la pioggia di fianco a casa sappiamo su quale calorifero metteremo ad asciugare cappello e guanti, sappiamo quale sportello apriremo per trovare la caffettiera o il bollitore. Quando si viaggia lontano da casa senza documenti è diverso.

Il treno inizia a salire. I fianchi delle colline mostrano in filigrana tracce di antichi terrazzamenti. Chi abita ora in questi paesi? Qui si dorme o si passa senza fermarsi, come questo treno.

Il bambino e la madre si mostrano foto sul cellulare e sorridono. Il ragazzo è sempre fermo sul suo sedile. Guarda fuori dal finestrino e, quando si gira per guardare dall’altra parte, fa in modo che i suoi occhi non incrocino quelli di nessuno.

Quando passa il controllore, il silenzio viene interrotto da vari “buongiorno” e “grazie” man mano che avanza a verificare i biglietti. Anche il ragazzo mostra il suo, senza però aprire bocca.

Il treno comincia a scendere verso il mare. Usciti dalla galleria si vedono le case liguri gialle e rosa, compaiono le palme, il giallo dei limoni! Chi scende annusa l’aria che sa di salsedine e sorride senza nemmeno accorgersi. Il treno costeggia il mare, imbrigliato tra i moli oltre i gasometri. La linea dell’orizzonte grigio-blu scorre intermittente tra le case, come una frase in alfabeto morse. Un grosso mercantile al largo è in attesa di scaricare e caricare. Passiamo Finale, dove a primavera ho avvistato due , che qui vengono per la ricchezza di cibo. Maestose, eleganti, le ho viste affiorare e spruzzare cinque volte prima di lasciarle ai loro giri tra Palermo e Tunisi, Gibilterra e Malta, in questo lago salato che è il Mediterraneo. L’anno scorso è stata vista una madre curare il suo balenottero proprio di fronte a Genova.

Una voce all’interfono avverte della possibilità di avvisare il personale in caso di problemi di sicurezza. Si avvicina la frontiera di Ventimiglia. Salgono due poliziotti, uno in borghese e una in divisa blu. Avanzano piano, con discrezione, controllano i bagni, bussano a quelli chiusi e si fanno aprire, guardano a destra e a sinistra. Quando vedono una persona dai tratti non europei chiedono i documenti. Un italiano riccio dalla carnagione scura guarda in basso pensieroso. Una madre senegalese con due bambini piccoli sorride, mentre liscia la piega dei cappotti.

La poliziotta, con la divisa blu che le cade addosso come un sacco, si ferma davanti al ragazzo e gli chiede i documenti. Lui tira fuori il cellulare, le mostra un QR code. La poliziotta chiede se ha un originale. Il ragazzo fa finta di cercare nel portafoglio. La donna in divisa è del mestiere, ha già capito e gli chiede di seguirla. Il ragazzo si alza con gli occhi bassi.

Io vorrei fare qualcosa, ma tutto quello che mi viene è un cenno di saluto con la mano, che lui non vede. Le madri lo guardano con una ruga in più al lato degli occhi. Un uomo si alza per godersi meglio la scena e sorride soddisfatto.

Mi dispiace non avergli offerto uno dei miei quattro panini. Anche se non lo avesse accettato ora avrebbe qualcuno da salutare mentre scende dal treno. Dopo tre ore nello stesso vagone ho respirato l’aria uscita dai suoi polmoni e lui la mia. L’ho osservato in volto, gli ho visto addosso quell’energia di ragazzo che non ho più, quella paura di non farcela che mi è familiare. Lo vedo camminare dietro la poliziotta e sparire in fondo al vagone.

Il treno rallenta: Nizza. Uscito dalla stazione mi mischio a una folla di francesi, italiani, algerini, maliani, russi, vietnamiti, cinesi, americani. Chi trova qui il calore, chi il lavoro, chi la luce per dipingere. La città brulica di ristoranti e mercati. Tira aria di mare. Sopra di me vedo stagliarsi contro il cielo le sagome di migliaia di storni, che volteggiano con le loro spettacolari coreografie. Voleranno fino alla terra dove ci sarà cibo e faranno il nido.

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Una risposta a “Quanto è robusto un uomo”

  1. Caro Xavier, ho letto il tuo racconto sul ragazzo del treno e l’ho trovato bello, vero e toccante. Per me dimostra anche che non bisogna aver paura di sbilanciarsi nei sentimenti. La freddezza è molto più grave di una, magari un po’ ridicola, manifestazione di interesse e amicizia. Come è meglio salutare che non farlo, a costo di sembrare strambi. Scusa x questa che può sembrare una lezione! Continua a scrivere

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