Milano oltre il WC

Ma toglietemi una curiosità: è vero che qui in continente ci mettete la panna sopra le fragole? Perché noi a Santa Giusta se non ci mettiamo il letame col cavolo che crescono!“
Così si interrogava il comico sardo Lucio Salis.

Mi hanno sempre affascinato le grandi infrastrutture pubbliche, frutto di impegno civico di decenni passati, di cui beneficiamo senza conoscerne quasi nulla.

A Milano da secoli siamo maestri nell’uso di questa risorsa perché le nostre fatte sono sempre state utilizzate per concimare i campi a sud della città. Di materiale ce n’è. Un milione e mezzo di abitanti che ne produce circa due etti al giorno, a cui si deve sommare la presenza di almeno un altro milione di pendolari nelle ore diurne, e di turisti che vengono ad assaggiare la nostra cucina e non risparmiano certo le quantità. Peccato che la risorsa prodotta dai più di centoventimila cani e almeno cinquantamila gatti milanesi vada persa nel termovalorizzatore. Verrà il tempo che useremo anche quella? Chissà.

Intanto di quello che succede dopo che tiriamo lo sciacquone sappiamo poco. Che la cacca sia un tabù d’altronde è comprensibile, se si pensa che contiene molti batteri dannosi per la nostra salute. Nessuno vorrebbe utilizzare il prodotto grezzo sul suo campo e tantomeno mangiarne i prodotti. Esiste per fortuna un processo naturale che tutti noi abbiamo studiato fin dalla scuola primaria. Ricordate il ciclo produttori, consumatori, decompositori? Bene, all’ultima categoria appartengono funghi e batteri che hanno un ruolo strategico nel garantire il riciclo dei nutrienti e quindi la nostra stessa vita. In natura le feci in qualche settimana vengono degradate. La maggior parte finisce in aria come vapore acqueo, CO2 e azoto. Il resto si lega alle particelle di suolo o segue l’acqua nel suo andare verso la falda acquifera. Questa trasformazione non è opera della leggendaria pietra filosofale ma di un esercito di miliardi di organismi viventi che noi abbiamo imparato a organizzare per i nostri scopi nelle vasche dei depuratori.

Abbiamo imparato dalla natura e semplicemente acceleriamo il processo.

Questi si presentano al microscopio così:

Sono così piccoli che la luce gli passa attraverso e possiamo osservare il cibo che hanno mangiato; a volte è colorato, se per esempio si tratta di alghe verdi. In realtà questi della foto sono protozoi, più grandi dei batteri decompositori, ma anche loro sono presenti nelle vasche perché si nutrono dei batteri e contribuiscono all’equilibrio delle popolazioni presenti in vasca. Un grande numero di operai specializzati, cellule vive che hanno bisogno di ossigeno per respirare. È per questo che, nelle vasche dei tre depuratori di Milano, potenti compressori soffiano aria in continuazione.

Nelle vasche di depurazione vige la specializzazione del lavoro. Ci sono batteri che prediligono le proteine, quelli che preferiscono mangiare i carboidrati o i grassi, quelli che trasformano l’ammoniaca in nitrati, e poi i preziosi denitrificanti, che trasformano i nitrati in azoto gassoso che si disperde in atmosfera. Senza di loro il Po e, di conseguenza, la riviera romagnola sarebbero così pieni di concime che soffocherebbero sotto una copertura di alghe. Fanno un gran lavoro questi esseri semplici dagli importanti nomi latini (Alcaligens, Flavobacterium, Pseudomonas…); bisognerebbe baciare loro i piedi, se solo ne avessero. E ringraziare chi riesce a governarli in questi veri prodigi che sono i depuratori, regolando i flussi in ingresso e i tempi di permanenza nelle varie vasche a seconda delle esigenze.

Il trattamento dei reflui non è stato sempre così sapiente. Ancora ai tempi del Parini (1729-1799) i vasi da notte venivano svuotati in strada o in depositi in cantina. Speciali carri cisterna chiamati Navazze, guidati dai navazzari, si incaricavano di portarne il contenuto in campagna, con spargimento di odori nauseabondi, tanto che i ricchi se ne andavano in Brianza appena potevano. Vigeva il divieto di compiere tali trasbordi nei mesi estivi e nelle ore diurne ma si sa, come scrisse Manzoni, comanda chi può e ubbidisce chi vuole.

Nell’ Ode alla salubrità dell’aria così si lamenta il Parini nel 1759:

…Quivi i lari plebei

da le spregiate crete (i vasi da notte)

d’umor fracidi e rei

versan fonti indiscrete

onde il vapor s’aggira

e col fiato s’ispira.

Né a pena cade il sole

che vaganti latrine (le navazze)

con spalancate gole

lustran ogni confine

de la città che desta

beve l’aura molesta.

Se iniziate a sentire il fastidio per la puzza, aspettate di sentire la fine della storia prima di abbandonare la lettura.

Il problema persistette a lungo e non stupisce che nessuno se ne volesse occupare. Finché a fine Ottocento e inizio Novecento la città si dotò di un moderno sistema fognario che venne poi ulteriormente sviluppato nel secondo dopoguerra, in parallelo all’espansione dei nuovi quartieri verso la campagna, come ben racconta Gian Luca Lippi nel suo articolo. Sono manufatti che ci stupiscono per la loro bellezza. Se oggi gli speculatori non si preoccupano di rovinare il paesaggio in cui viviamo per fare qualche milione di euro in più (quello sì, sporco), un tempo si cercava di creare il bello anche per le opere sotterranee: targhette in maiolica che segnano i nomi delle vie sovrastanti e i numeri civici, marmi, sistemi di volte degne di una cattedrale.

Le pregiate fognature però spostano il problema ma non lo risolvono. I liquami della seconda metropoli d’Italia sono confluiti per decenni nel Lambro meridionale, fiume che non ha proprio la capacità di diluizione del Mississippi. Questo ha comportato la morte di ogni forma di vita e un paesaggio da cloaca infernale degna delle peggiori punizioni nate dall’immaginazione dantesca. I nutrienti presenti nelle fogne sono preziosi, ma non quando sono concentrati e accompagnati da batteri patogeni, schiume e altre schifezze . Il Lambro meridionale, nel quale sono convogliati tutti i reflui urbani e i corsi d’acqua che entrano a Milano (Seveso e Olona in primis), è stato infatti ribattezzato Lambro merdario. La faccenda ci è costata anche parecchie multe europee, finché nel 2003 Milano si è finalmente dotata di depuratori all’avanguardia, e una brutta storia si è trasformata in un caso di eccellenza milanese.

Oggi quasi 1500 km di canali e tubature sotterranee, pari alla distanza Milano Palermo, raccolgono gli scarichi domestici e le acque di scolo dei tombini, e le portano in leggera discesa verso i tre depuratori di San Rocco, Nosedo e Peschiera Borromeo.

Se siete curiosi di come funziona un depuratore potete iniziare guardando questo video. Oggi gli impianti sono dotati di sistemi di abbattimento degli odori e i fastidi per chi abita vicino sono veramente limitati.

 Il depuratore di Nosedo è visitabile e lo stupore è garantito. Alla fine della visita si esce fuori e si possono ammirare le chiare fresche dolci acque che escono dall’impianto per andare a irrigare i campi, che dai tempi dei monaci cistercensi dell’abbazia di Chiaravalle, hanno costituito la ricchezza di Milano. Riso, mais e grano crescono rigogliosi per far ricominciare il ciclo e tornare nelle pance dei milanesi.

È proprio come cantava De André in Bocca di rosa: Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.

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